MILANO — Tre lettere. Una alla compagna e al figlio, una all’avvocato, l’ultima per un maresciallo dei carabinieri. E poi un lungo, conclusivo, atto di accusa. Una pagina scritta a macchina, date, conti bancari, un nome e cognome: «Quell’uomo mi ha rovinato la vita. Chiedeva altri soldi. Prendetelo». Poi Andrea Sannicandro, 52 anni, una vita passata al bar tabacchi Loreto Uno di viale Monza, 9, quello dove ai tempi d’oro Lele Mora (che ha l’ufficio nello stabile) offriva l’aperitivo alle modelle, scende nel seminterrato, annoda una corda alla trave del soffitto e sparisce dal suo mondo di debiti, prestiti, protesti e usura. Lo hanno trovato ieri mattina alle 7,11, due dipendenti del bar. Le ragazze avevano visto l’auto parcheggiata, pensavano fosse sceso nel magazzino. Invece lui era lì, forse dalla notte precedente, quando dopo aver salutato la compagna aveva detto a un amico che sarebbe rimasto nel locale per sbrigare un paio di questioni. Lei era tornata a casa con il figlio di 23 anni, a Uboldo in provincia di Varese.
Quando le pattuglie della polizia sono arrivate nel bar con le serrande mezze abbassate, la scoperta di quell’ultimo atto di accusa, scritto con calma. Come aveva fatto giusto quattro anni prima un altro commerciante di viale Monza, il macellaio Roberto Mandotti morto anche lui impiccato a 41 anni nel suo negozio, duecento metri più in là, oltre il ponte della ferrovia. Mandotti, schiacciato dai debiti, lasciò il nome del suo aguzzino. La polizia lo prese due giorni dopo. In casa aveva la lista delle famiglie strozzate, conti per milioni di euro.
E al macellaio, deve aver pensato con un tarlo continuo anche il barista Sannicandro. Tante, troppe le analogie. Dicono che fu proprio lui, all’indomani di quella morte a proporre una fiaccolata dei commercianti della zona. Poi non se ne fece niente, perché Milano si dimenticò in fretta di quel macellaio e delle altre 20 mila persone che per le associazioni antiracket vivono sotto la scure degli strozzini. «Lo hanno ucciso le banche e lo stato che non protegge le vittime di usura», tuonano Frediano Manzi e Paolo Bocedi di Sos racket e usura. La vittima nelle sue lettere ora sotto sequestro, ha raccontato di un uomo. Il nome è quello di un imprenditore di 34 anni residente nel Bresciano. A lui è intestato un negozio un centinaio di civici più in là sempre in viale Monza.
Il barista, nel suo ultimo scritto, racconta dei debiti accumulati. Alla Camera di commercio sono registrati 11 protesti per cambiali e assegni, il primo è del 13 di gennaio (1.450 euro), l’ultimo del 9 di luglio (3.000 euro). In tutto meno di 30 mila euro. A cui vanno aggiunti una fila di prestiti personali ormai fuori controllo. Poi gli ultimi assegni, quelli intestati all’imprenditore G. M. per conto di alcune società finanziarie del Bresciano: «Soldi prestati a tasso d’usura». Le accuse restano tutte da dimostrare. Ieri i poliziotti hanno ascoltato il maresciallo della stazione Porta Garibaldi, il carabiniere al quale era indirizzata una delle tre lettere. Sannicandro lo aveva conosciuto un mese fa, gli aveva confidato dei guai finanziari, di quell’amico diventato usuraio e aveva anche accettato «magari dopo l’estate» di sporgere denuncia. Poi il passo indietro, il silenzio e l’ultimo salto nel vuoto. Solo in viale Monza, nel suo negozio, di notte, come il macellaio Mandotti.
Giuzzi Cesare
(21 luglio 2009) - Corriere della Sera